Arruina by Francesco Iannone

Arruina by Francesco Iannone

autore:Francesco Iannone [Iannone, Francesco]
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2019-03-27T21:00:00+00:00


La Sciangata

Siamo stanchi, la luna illumina la valle, il paese inanimato.

Le nostre pance gonfie. Come i corpi che macera la morte. Inerti. I nostri corpi. Inerte. La morte.

Acquavena è lontana. Solo i fumi, si vedono. E le strilla dei tordi come se gli stessero slogando le ali. E le loro ossicine, si vedono. Bianche sotto una coltre plumbea.

Acquavena aveva una piazza dove si radunavano le acque quando veniva la piena. E i tombini di ghisa si scioglievano e ridiventavano fuso rovente. I vecchi seduti ai tavoli scappavano per evitare il contatto con il liquido scuro. Uno però una volta inciampò e l’acqua lo raggiunse. Gli si consumò il naso, il labbro inferiore gli si appese al mento, e gli aummaria si sentivano in lontananza, aummaria dei recalcitranti nella fossa, aummaria dei cani rognosi con la bava sui denti, aummaria degli agnelli con lo scorsoio al collo.

Ad Acquavena si era felici, prima che la goccia di sangue della Sperduta facesse tremare l’anima della terra.

Ancora ricordo il giorno della sua festa. Aveva pochi mesi, ma le sue gambe erano lunghe, i suoi seni si erano già gonfiati sotto la veste.

Ora mi guardi, mi asciughi la saliva sui denti. Per un attimo essere. La sacca elastica. L’utero tenue. Dentro la giuntura, fra osso e osso. Ruotare nel suo globulo, nutrire la sua cellula.

Sì, ricordo il giorno della sua festa. Tutto il paese accorse per vederla. C’erano tutti, allora. Ognuno col suo abito buono, il fiore nel taschino, l’uccello sulla spalla. Il suo becco truce, la sua coda a punta. «È nata la bambina magica» urlavano, «è nata!» La Sperduta aveva un abito con un lungo strascico damascato. I piedi scalzi, un branco di roditori le fasciava le caviglie. Ad ogni suo movimento si spostava per terra una nuvola grigia. «Dobbiamo fare qualcosa» mi dicevi. «Guarda il suo vestito. È bello. Il suo vestito» mi dicevi. «Guarda quel ricamo, sembra il mondo sul vestito, quel ricamo» mi dicevi. La Sperduta era la regina della festa. Il suo volto di albicocca, quel livido sul braccio. «Guarda quel livido sul braccio. È reale, ed è scuro. Sembra un gelso spremuto sulla sua pelle, quel livido sul braccio. Sembra qualcosa che non so dire.»

Le Nerissime hanno appiccato l’incendio la sera in cui l’hanno rapita. Ho questa sola immagine nel cervello dal giorno in cui siamo partiti. Era così piccola, era una rana brutta, era un’agnella disperata. Aveva ancora la ferita attorno all’ombelico. Non piangeva mai, solo muggiva, talvolta, non sembrava affatto una bambina, e probabilmente non lo era.

Le Nerissime quella sera avevano la fuliggine negli occhi. Nelle pieghe delle rughe, la fuliggine. Nel giro delle orecchie, la fuliggine. Nell’ordito delle maglie, la fuliggine. Ridevano sollevandosi sulle punte. E ci guardavano morire con in mano il cucchiaio della minestra. E ci guardavano raccogliere i cocci per terra, le schegge della ceramica dei piatti. E non si curavano del fuoco che consumava il legno delle sedie e la stoffa dei divani. «Morirete tutti» dicevano. E sorridevano con un ghigno,



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